Vittorio Degiorgio (1939-2021)

Vittorio Degiorgio

Scrivere di Vittorio ora che se ne è andato è per me una cosa molto difficile perché siamo stati amici da sempre, dall’inizio del nostro lavoro di ricerca quando assieme siamo finiti a lavorare nel laboratorio di Tito Arecchi presso i laboratori del CISE, a Segrate, a metà degli anni sessanta. Benché Vittorio sia la persona con cui più a lungo ho discusso di fisica, abbiamo poi pubblicato assieme molto poco. Eppure, sin dagli inizi ho preso la abitudine di discutere con lui ogni volta che mi sembrava che ci fosse qualcosa di interessante da spartire. E anche adesso, che cerco di scrivere disordinatamente qualcosa su di lui, spontaneamente mi viene da pensare che forse farei meglio a parlarne con Vittorio.

Il gruppo di Tito Arecchi era allora un posto estremamente stimolante, in gran parte per le caratteristiche rabdomantiche di Tito, e il suo furore nel programmare il lavoro. Tito aveva avuto l’idea di sfruttare il poderoso arsenale di strumentazione elettronica utilizzato per la fisica nucleare e i laser che allora venivano costruiti in CISE, tra i primi in Europa. Tra tutti i progetti, quello di maggior pregio era quello sulla distribuzione di fotoconteggi per studi sulla coerenza quantistica, lungo le linee teoriche formulate da Roy Glauber, e divulgati nelle sue Lecture Notes di una fatidica Scuola di Les Houches. Vittorio e io non appartenevamo a quella ricerca, e fummo ammessi a quel laboratorio solo in occasione di una prolungata visita di Roy. Entrati nel laboratorio, nella luce fievole necessaria, né io né Vittorio potevamo capire qualcosa degli aspetti teorici nel dialogo tra Tito e Roy, ma entrambi rimanemmo meravigliati dalla semplicità estrema della parte sperimentale, un mastodontico tubo laser He-Ne, dove la scarica partiva con il gracchio di un Tesla, poche lenti, un disco rotante di vetro smerigliato, ed un fototubo con una piccola apertura davanti, e piazzato a una certa distanza. Acceso il laser, ci fu qualche istante di panico, Tito cominciò a lamentarsi. Qualcosa non andava! Alberto Sona, che co- dirigeva il gruppo, corse ai ripari, spostò con cura una lente, e tutto ad un tratto piccole, contrastatissime macchioline cominciarono a volare sulle pareti. Allora, avvenne il miracolo, e sugli schermi degli analizzatori dove comparivano le distribuzioni di fotoconteggi finalmente vedemmo la transizione da una Poisson a una Bose Einstein al cambiare della luce da coerente a termica. Roy poi dopo alcune decadi avrebbe vinto il premio Nobel per il suo contributo sulla teoria della coerenza quantistica.

Nell’estate del 1967 ci fu una storica e lunghissima Varenna School su “Quantum Optics”, e la maggior parte degli insegnanti appartenevano al Gotha internazionale della QO. Tra questi, Marlon Scully, PhD student di Willis Lamb, anche lui premio Nobel. Vittorio e io riuscimmo a entrare come studenti, e ci fu assegnato il compito di redigere le lecture notes di Tito.

Pochi mesi dopo io partii per un periodo di due anni presso i laboratori di George Benedek al MIT per lavorare su fenomeni critici con tecniche di scattering. Vittorio arrivò l’anno dopo, e spartimmo un appartamento a Cambridge. Anni di lavoro intenso, con orari di lavoro folli, spesso sino a notte fonda. Una sera, tornando dal MIT molto tardi, trovai Vittorio che era appena tornato da una serata passata ad Harvard Square, che brulicava di vita, vero ombelico del mondo. Mi disse che aveva giocato a scacchi con un chess Master in un bar dove si ritrovavano i patiti del gioco degli scacchi. Chiesi come fosse andata. Mi rispose che il Maestro gli aveva fatto un grande complimento. Mi riportò il commento del Maestro: “...Guardi, era ovvio che lei non poteva vincere contro di me. Ma ho osservato che lei ha mostrato una qualità molto particolare per un non professionista. Lei non ha sbagliato mai!”. Era una considerazione che lo descriveva molto bene quando si trattava di fisica, capendo immediatamente anche i dettagli meno ovvii, e trasformando garbugli di risultati sperimentali e tentativi di interpretazione in qualcosa di ordinato. Per poi comparire il giorno dopo con un pezzetto di carta scarabocchiato e con la sua frase, sempre la stessa: “Ieri sera mi sono fatto due conti...” e quei “due conti” spesso erano quelli che ti evitavano peregrinazioni non costruttive, e disastrose scelte sperimentali.

Mentre eravamo al MIT, anche Tito decise di venire ospite di George Benedek, e finì nello studio accanto al nostro. In quel periodo Vittorio completò di scrivere un lavoro sulla statistica della emissione laser durante il transitorio della accensione. Ma siccome le tecniche spettroscopiche di intensity fluctuations erano in rapido sviluppo e applicazione nel laboratorio di George Benedek, Vittorio cominciò a lavorare con Joe Lastovka sui correlatori digitali a un bit, e alla fine produssero un lavoro di grande utilità per il loro utilizzo.

Tornando indietro, era inevitabile che si tornasse a lavorare al CISE. Ma le cose stavano cambiando al CISE, e divenne sempre più chiaro che quello non era più il posto dove poter continuare la ricerca di nostro interesse. Ma in quel periodo di transizione si evidenziarono le divaricazioni anche nella scelta dei campi di lavoro. Vittorio cominciò a lavorare con Mario Corti su problemi di soluzioni colloidali e presto comparve Roberto Piazza, e il gruppo si concentrò sull’uso di tecniche dì scattering dinamico. L’attività nel campo dei colloidi ebbe grande successo, e portò alla formazione di un Gruppo Europeo, come viene descritto nella parte redatta da Roberto.

I tempi erano maturi per l’abbandono del CISE, e Tito se ne andò a prendere la direzione dell’Istituto Nazionale di Ottica ad Arcetri, e Vittorio si spostò su una cattedra all’Università di Pavia. Io rimasi più a lungo, per poi andare al Dipartimento di Fisica dell’Università di Milano. I contatti con Vittorio si ridussero per forza di cose.

In pensione entrambi, ci siamo trovati assieme di nuovo. Come per un concerto Jazz a Milano di Ran Blake, che insegnava improvvisazione al Boston New England Conservatory, e che avevamo conosciuto a Cambridge. E sempre allo stesso ristorante a Milano.

Ricorderò le sue ultime lucidissime telefonate. In cui diceva che sapeva che se ne stava andando, che non sapeva se sarebbe arrivato al giorno successivo.

“Io e te abbiamo avuto vite bellissime e abbiamo conosciuto persone che ci è piaciuto conoscere”.

Pochi giorni dopo, Luigia, sua amatissima moglie mi ha confessato che prima di chiamarmi al telefono per il suo commiato, le disse “vado a consolare il Marzio”.


Marzio Giglio
Università di Milano


18/10/2017
Caro Roberto,
Luigia mi ha ricordato che tu, tanti anni fa, avevi espresso il desiderio di ricevere in dono la mia valigetta quando avessi smesso di utilizzarla. Effettivamente io non la uso più da un po’ di tempo, ed è ancora in ottime condizioni. Sei ancora interessato?
Ciao, Vittorio

Mentre mi accingo a scrivere con un discreto peso sullo stomaco queste poche righe su chi è stato per me molto più di un mentore, quella valigetta è proprio qui al mio cospetto: una Samsonite rigida in ABS che ha accompagnato Vittorio lungo il suo cammino nella scienza. In condizioni pressoché perfette, sembra un tratto inevitabile e distintivo dell’archetipo di “ingegnere” che pretende di cambiare il mondo senza preoccuparsi troppo di capirlo. Con quello stereotipo Vittorio, uomo dagli amplissimi orizzonti culturali che spaziavano dalla letteratura alla storia contemporanea, dal jazz al teatro, non aveva nulla a che fare. Su ciascuno di questi argomenti le sue convinzioni erano salde e difficilmente opinabili, perché sviluppate con la stessa cristallina chiarezza, la stessa meticolosa logica, la stessa assenza di pregiudizi che caratterizzavano i suoi risultati scientifici. Insomma, qualche volta Vittorio era anche un filo cocciuto ma, per usare il gergo dei miei figli, “ci sta”.

Forse era proprio questa “bussola di equità” che orientava ogni giudizio di Vittorio a generare un’ineludibile impressione di autorevolezza in coloro che l’hanno davvero conosciuto: Vittorio non aveva bisogno di imporre alcunché, non ce n’era bisogno. Sicuramente è la ragione per cui per me e per tutti quelli che hanno avuto il privilegio di averlo per maestro era semplicemente “il Capo”. Autorevolezza che non sfruttò mai per accrescere il proprio prestigio personale. Ricoprì molti ruoli di rilievo, ma per puro spirito di servizio e sempre sotto la condizione che tali impegni non limitassero la sua amatissima libertà (lo vidi declinare un’offerta apparentemente irrifiutabile solo perché, mi disse, “non potrei tollerare di essere svegliato con l’ingiunzione di recarmi a Roma entro poche ore”).

Quando lo conobbi, Vittorio, oltre ad avere nel paniere i notevoli risultati scientifici ben descritti da Marzio, era già una figura di rilievo anche nello studio dei sistemi colloidali, soggetto interdisciplinare ma fino ad allora dominio dei chimici, nel quale aveva importato concetti propri della fisica dei liquidi e dei fenomeni critici. Un evento che testimonia il ruolo guida assunto da Degiorgio in questo campo fu il XC corso della scuola “Enrico Fermi” di Varenna “Physics of Amphiphiles: Micelles, Vescicles, and Microemulsions”, organizzata con Mario Corti nel luglio 1983, che si contraddistinse per una sinergia di competenze tra chimici, fisici e biologi e che fu determinante per la nascita un paio di anni dopo della European Colloid & Interface Society (ECIS).

Tuttavia, fatto piuttosto anomalo nel panorama accademico nazionale, Vittorio non aveva allora né un proprio gruppo né tantomeno un laboratorio: i suoi successi erano stati il frutto o del suo sforzo individuale o di collaborazioni accuratamente scelte (diceva: “le collaborazioni funzionano quando non c’è bisogno di collaborare”, intendendo con ciò che ciascuno degli attori deve innanzitutto reggersi bene sulle proprie gambe). Ebbi così la fortuna, come suo primo vero allievo, di dargli una mano a mettere i primi mattoni della sua nuova “casa scientifica” e di condividere i suoi “anni ruggenti” nel mondo della materia soffice. I nostri interessi si focalizzarono sullo studio di sistemi colloidali “modello”, il che ci portò ad ottenere, grazie anche al prezioso contributo di Tommaso Bellini, risultati di notevole interesse sulla dinamica browniana dei sistemi interagenti e ad ottenere la prima misura dell’equazione di stato di sfere rigide, fatta sulle orme dell’esperimento con cui Jean Perrin provò in modo inconfutabile la realtà degli atomi. Soprattutto, imparammo insieme quanto indagare la “Terra di Mezzo” dei sistemi mesoscopici, dove l’entropia regna sovrana, permetta di affrontare domande fondamentali per la fisica.

Quando le nostre strade si separarono ed io intrapresi, non senza fatica, un mio percorso di ricerca del tutto indipendente (d’altronde Vittorio riteneva essenziale che prima o poi i suoi allievi “staccassero il cordone ombelicale”), Degiorgio ritornò ad avere un’attività di primo piano nell’ottica nonlineare dapprima con Gianpiero Banfi, la cui scomparsa prematura fu per lui un colpo durissimo, e successivamente con Ilaria Cristiani, con la quale focalizzò la ricerca sulla fotonica integrata e sulle comunicazioni ottiche.

Nei tanti anni passati insieme, ho imparato da Vittorio un sacco di cose. In primo luogo, ho capito che cosa significhi “creare una scuola”. Guardandolo costruire quella che è diventata una culla di ricercatori di qualità, ho soprattutto compreso quale responsabilità ci si accolli nell’orientare il futuro dei propri allievi (talora mi lasciò un po’ perplesso non vederlo offrire alcuna prospettiva futura a chi riteneva “chiaramente inadatto alla ricerca”: ora so che aveva spesso, anche se non sempre, ragione).

Ho imparato anche quanto, per aver successo nella ricerca, l’attitudine e le qualità intellettuali siano importanti, ma non bastino: bisogna lavorare tanto, e lavorare sodo. Dote in cui Vittorio primeggiava, arrivando in ufficio a Pavia da Milano ad ore antelucane e adducendo come giustificazione il fatto che “se fossi partito più tardi, avrei trovato la tangenziale intasata” (vero, ma solo in parte).

Spero infine di aver mutuato anche solo una piccola parte delle sue doti comunicative. Curiosamente, per quanto preferisse la raffinata ma un po’ contorta ricerca verbale di Gadda alla lingua distillata di Calvino, il tono essenziale ma perspicuo dei suoi articoli sembra ispirarsi direttamente alle Lezioni Americane. Superfluo dire che ciò si rifletteva in pieno nelle sue lezioni in aula, che spiccavano per lucidità, rigore e chiarezza espositiva.

Alla fin della fiera questo breve ricordo è sconfinato un po’ nell’elegia, cosa che Vittorio non avrebbe apprezzato. O forse (ed è il momento di rivolgermi a te, e solo a te), dato che non nutrivi alcuna speranza salvifica, ti avrebbe lasciato del tutto indifferente. Forse, e forse anch’io concordo che immaginare che tu mi possa ascoltare sia solo una pia illusione. E pur tuttavia, ricordi,
... celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi.


Roberto Piazza
Politecnico di Milano