Carlo Bernardini (1930-2018)

Carlo Bernardini

Carlo Bernardini è stato uno dei protagonisti del processo di ricostruzione e dell’enorme sviluppo della fisica italiana negli anni '50- '60, contribuendo come giovane fisico alla riconquista su nuove basi della posizione di eccellenza raggiunta negli anni '30 dai padri della fisica moderna in Italia. Si era formato alla scuola degli allievi e collaboratori di Enrico Fermi e Bruno Rossi e fu tra i pionieri dello sviluppo dei Laboratori Nazionali di Frascati dove condivise con Bruno Touschek e gli altri membri del gruppo la più entusiasmante avventura scientifica e umana della sua vita: la costruzione dell’anello AdA, che per la prima volta al mondo fece collidere due fasci di elettroni e positroni aprendo una nuova era nella fisica delle alte energie e nell’esplorazione della materia.

La sua visione della fisica come appassionante avventura intellettuale, e soprattutto il senso profondo del ruolo e della responsabilità dello scienziato, si esprimevano in un ampio connubio tra impegno scientifico, culturale, politico, sociale. Questo impegno ebbe una delle sue espressioni culminanti nell’insegnamento, che Bernardini considerò sempre una altissima missione –“l’arte più nobile del mondo”– ispirato dall’esempio dei grandi maestri che sentiva di aver avuto il privilegio di incontrare e di cui divenne amico e collaboratore, ma dei quali parlava sempre con l’ammirazione e il profondo rispetto dovuti a persone tanto speciali. Le sue lezioni eleganti –in cui la fisica si mescolava in modo naturale con suggerimenti di buone letture e perfino di musica classica da ascoltare– il suo stile e il suo garbo inimitabili, hanno influenzato generazioni di studenti a cui trasmetteva il suo senso di meraviglia e di emozione di fronte al potere della razionalità scientifica e del suo linguaggio “estremamente efficiente e produttivo creato da un cervello collettivo nell’arco di secoli”.

Era un affascinante comunicatore e fu sempre generoso nel condividere instancabilmente le sue opinioni e riflessioni sul rapporto tra scienza e società, tra cultura scientifica e umanistica e più in generale sul contributo dello scienziato alla costruzione e al progresso di una società. Con la facilità di scrittura che lo contraddistingueva e la ben nota disponibilità nell’accettare gli inviti a parlare in pubblico, con la sua costante opera nel promuovere iniziative e nel partecipare a quelle che considerava giuste cause, ha creato insieme a tutti coloro che ne hanno profondamente condiviso gli ideali un vero e proprio spazio dinamico di analisi e riflessione che andava dall’impegno per la diffusione della cultura scientifica in tutte le possibili forme, alla trasmissione del valore della conoscenza, fino alle battaglie su fronti impegnativi come il problema del disarmo, del nucleare, delle riforme per l’università e la ricerca, della necessità di una radicale innovazione nella didattica dell’insegnamento superiore. Senza mai tirarsi indietro, si esponeva in prima persona, spesso anche in forma estremamente polemica, ma sempre con profonda buona fede, opponendosi a quella che considerava la “strategia dello struzzo”: “Non posso permettermi di occuparmi dei mali del mondo, perché ho di meglio da fare”. E contraddicendo sistematicamente il motto che aveva affisso sulla porta del suo studio: “Aveva la coscienza pulita. Non l’aveva mai usata…”.

Carlo Bernardini era nato il 22 aprile 1930 a Lecce –città a cui rimase emotivamente legato per tutta la vita– da una colta famiglia di intellettuali antifascisti e anticlericali, un ambiente che favorì le sue precoci curiosità intellettuali e incoraggiò la sua assoluta dedizione allo studio e alla lettura. Completando con due anni di anticipo le scuole superiori, decise di dedicarsi agli studi di fisica, una scelta che appariva incomprensibile in un’epoca in cui la fisica era ancora considerata soltanto una materia da insegnare a scuola, la cui dimensione di ricerca risultava del tutto oscura, al più associata con la produzione dei terribili ordigni nucleari appena esplosi su Hiroshima e Nagasaki.

Nell’Italia del primo dopoguerra Fermi era già divenuto un mito e la sua presenza era ancora tangibile nell’Istituto di Fisica di Roma La Sapienza, dove Bernardini arriva nell’autunno del 1947. Una circostanza che mi ha sempre molto colpito. Il 1947 è stato un anno cruciale per la fisica dei raggi cosmici, di cui gli italiani erano da tempo affermati specialisti. Rappresenta lo spartiacque che segna l’aprirsi di uno scenario del tutto nuovo annunciato dalla scoperta del pione ad opera di Cesare Lattes, Giuseppe Occhialini e Cecil Powell. Il muone aveva acquistato una nuova identità, le cui caratteristiche erano state appena rivelate dallo storico esperimento effettuato a Roma durante la guerra da Marcello Conversi, Ettore Pancini e Oreste Piccioni, un esperimento consacrato da Luis Alvarez nella sua lezione Nobel come l’evento che ha segnato l’inizio della moderna fisica delle particelle elementari. Lo stesso Fermi aveva subito spiegato che il muone –ex mesone dei raggi cosmici– interagisce debolmente con la materia nucleare e non poteva quindi essere il mediatore delle interazioni nucleari ipotizzato da Hideki Yukawa. In questo contesto, il concetto di universalità delle interazioni deboli era stato subito avanzato da Bruno Pontecorvo e fu ripreso di lì a poco da Gianni Puppi.

Nell’eco di questi straordinari avvenimenti, che toccavano così da vicino la comunità dei fisici italiani, Bernardini visse dunque l’inizio dei suoi studi in un’atmosfera di piena continuità con la tradizione stabilita prima della guerra, e insieme ai pochi altri studenti di fisica venne totalmente coinvolto nella vita entusiasmante di quella che era ancora una piccola comunità, una “famiglia”, il cui “indiscusso patriarca” –come lui stesso immancabilmente ricordava– era Edoardo Amaldi, il principale stratega della ricostruzione dopo il “disastro” e al tempo stesso il promotore della costruzione su basi nuove di una realtà pienamente internazionale per la fisica italiana.

Nel 1952 Bernardini si laurea con Bruno Ferretti e subito dopo entra in contatto con Enrico Persico, tra i numi tutelari della rinascita della fisica a Roma e all’epoca a capo del gruppo teorico impegnato nella progettazione dell’elettrosincrotrone, un acceleratore di particelle che corrispondeva all’aspirazione dei fisici italiani di poter svolgere ricerche competitive con i migliori laboratori del mondo. Dopo la creazione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare nel 1951, il progetto dell’elettrosincrotrone, fortemente promosso da Gilberto Bernardini, andava di pari passo con la creazione di un laboratorio nazionale per la sede del quale fu scelta Frascati, nei dintorni di Roma. Per realizzare la macchina –complementare rispetto al protosincrotrone previsto per i laboratori del neonato CERN– fu costituito un gruppo posto sotto la guida del poco più che trentenne Giorgio Salvini. Bernardini venne assunto dalla sezione sincrotrone dell’INFN, entrando a far parte del gruppo dei “primi della classe” –come lo stesso Salvini amava definire i giovani neo laureati scelti per la realizzazione di questa impresa.

Il suo primo compito fu quello di calcolare campi magnetici e dal '53 al '59 lavorò a ricerche legate al problema dello studio del fascio di elettroni circolante nel sincrotrone. Sono tipici di quell’epoca i suoi famosi componimenti in rima, in italiano o in romanesco, nei quali venivano presi in giro i colleghi, espressione del suo forte senso dell’umorismo e testimonianza del clima scherzoso e della forte componente ludica caratteristica del gruppo di giovani uniti nell’impresa di avviare le attività di ricerca nei Laboratori Nazionali di Frascati.

Alla fine degli anni '50, quando l’elettrosincrotrone entrò in funzione –una delle macchine più potenti del mondo nel suo genere– Bernardini fu tra i protagonisti di una nuova rivoluzionaria impresa, il cui ispiratore e principale motore fu Bruno Touschek, un fisico teorico austriaco giunto a Roma alla fine del 1952, dopo anni di vita avventurosa e drammatica tra Austria e Germania, approdato in Inghilterra nel 1947. Touschek, che aveva già imparato l’arte degli acceleratori durante la guerra, collaborando alla costruzione di un betatrone con Rolf Widerøe ad Amburgo, mostrava un certo interesse per l’elettrosincrotrone, una macchina che gli era familiare fin dai suoi anni a Glasgow. Il problema della perdita di elettroni del fascio circolante nell’elettrosincrotrone, a cui Bernardini stava lavorando, segnò l’inizio della loro collaborazione. Bernardini restò affascinato dalla personalità umana e scientifica decisamente fuori del comune di Bruno Touschek. Un incontro destinato a rimanere una delle esperienze più memorabili della sua esistenza, che gli era impossibile ricordare senza provare una forte emozione e un forte senso di vuoto per la sua precoce scomparsa.

Nel febbraio del 1960, quando Touschek avanzò con convinzione la proposta di esplorare le collisioni tra elettroni e positroni facendo circolare due fasci in senso inverso in un unico anello, Bernardini entrò subito a far parte del team che progettò e costruì l’anello di accumulazione AdA, dove appena un anno dopo, nel febbraio del 1961, circolavano i primi elettroni. I visitatori venivano puntualmente condotti a osservare la luce emessa dagli elettroni (“Guardate che state vedendo qualcosa che nessuno ha mai visto prima…”). Per ottimizzare l’iniezione, nel 1962 AdA venne trasferita nel Laboratoire de l’Accélérateur Lineaire di Orsay, dove iniziò la fase vera e propria di sperimentazione e una entusiasmante collaborazione con i francesi. Bernardini contribuì in modo essenziale all’identificazione di alcuni problemi, affrontati per la prima volta in un contesto del tutto nuovo come quello di un anello di accumulazione, e suggerì delle tecniche per superarli. In particolare, collaborò alla teoria di quello che fu poi denominato effetto Touschek, scoperto per la prima volta in AdA.

Il meccanismo di scattering all’interno dei fasci con conseguente perdita di particelle limitava fortemente le prestazioni del piccolo anello, ma fortunatamente –con grande sollievo di Touschek e di tutto il gruppo– diveniva assai meno rilevante ad energie superiori. La sperimentazione nei laboratori di Orsay si concluse nel 1964, con l’osservazione del processo di bremsstrahlung singola e+e–→ e+e– γ. AdA divenne una pietra miliare nella storia degli acceleratori e della scienza mondiale. Aveva mostrato che era possibile accumulare per ore fasci di particelle di carica opposta nella camera da vuoto e farli collidere, creando i presupposti per la costruzione di collider in cui i processi di annichilazione tra materia e antimateria ad energie molto più alte avrebbero consentito la produzione di nuove particelle aprendo la via alle misure di precisione che hanno confermato la validità del Modello Standard.

Mentre l’anello AdA era ancora in costruzione, era già partito il progetto di Adone, un collisore per elettroni e positroni molto più grande, che, dopo il prologo con AdA, avrebbe definitivamente lanciato l’Italia nella fisica delle alte energie. Bernardini era tra i firmatari della proposta, presentata all’inizio del 1961 e successivamente partecipò attivamente alla sperimentazione con Adone, occupandosi poi in prima persona del varo di un nuovo ambizioso progetto, SuperAdone, un anello per elettroni e positroni molto più potente di Adone, che con un’energia massima di 30 GeV avrebbe dovuto mettere l’Italia in grado di competere con i più importanti laboratori a livello internazionale. Questo progetto fu successivamente abbandonato, segnando l’inizio di una fase nuova nella vita di Carlo Bernardini, che coincise anche con la decisione di Bruno Touschek di abbandonare l’Istituto di Fisica dell’Università La Sapienza –uno degli epicentri della contestazione studentesca– a seguito di una serie di spiacevoli eventi legati al clima molto pesante che si era creato al suo interno.

Tra il 1972 e il 1974 Bernardini fu preside della Facoltà di Scienze e all’inizio degli anni '80 coordinava il primo ciclo di dottorato di ricerca alla Sapienza. Nel 1976 divenne senatore indipendente nel PCI durante la VII legislatura iniziando a fare politica per la ricerca e l’università, in particolare adoperandosi attivamente per le riforme scolastiche e universitarie. Collaborò per anni alla rivista Rinascita, presiedendo anche per un certo tempo gli Editori Riuniti, contribuendo in modo decisivo alla diffusione in Italia dei libri di grandi fisici e matematici russi e condividendo con il fraterno amico Tullio De Mauro l’entusiasmante iniziativa della collana Libri di Base. Dal loro “dialogo sulle due culture” nacque più tardi il libro Contare e Raccontare.

Si impegnò attivamente anche sul fronte dell’insegnamento della fisica nelle scuole attraverso una intensa attività con gruppi di insegnanti e collaborando con Lucio Lombardo Radice nella direzione della rivista Riforma della Scuola. Nel 1982 contribuì alla nascita dell’Unione Scienziati Per il Disarmo (USPID) e alla organizzazione di una serie di convegni internazionali sui temi del disarmo e del controllo degli armamenti e di varie iniziative correlate. A quell’epoca inizia a dirigere con grande passione la rivista Sapere e grazie alla sua straordinaria rete di rapporti riesce ad ottenere la collaborazione volontaria di esponenti di livello della vita scientifica e culturale italiana trasformando anche la rivista in uno straordinario vivaio di nuove e brillanti leve, una vera e propria scuola di giornalismo scientifico sul campo, che ha poi alimentato il settore con personaggi di grande qualità.

Il suo costante interesse per la storia contemporanea si focalizzò negli ultimi vent’anni della sua vita attorno a una riflessione più approfondita sul valore della storia della fisica (“Un settore culturale senza storia è un’anomalia grave del pensiero e di tutte le sue tradizioni”) della cui importanza lo aveva a suo tempo convinto lo stesso Edoardo Amaldi. Il suo impegno in questa direzione prese corpo nell’organizzazione del centenario della nascita di Enrico Fermi nel 2001, nel supportare l’iniziativa tuttora attiva di una scuola annuale di storia promossa dall’Associazione per l’Insegnamento della Fisica e nel “velleitario” tentativo, purtroppo fallito, di creare un Istituto Nazionale di Storia delle Scienze. Nel 2005, in coincidenza dell’anno mondiale della fisica, nel volumetto autobiografico Fisica vissuta, ha deciso di “rivisitare il suo mondo passato” nella convinzione che la fisica, “una forma di conoscenza così rifiutata come quella in cui mi ero cacciato con entusiasmo da alcuni anni potesse acquistare popolarità se mescolata con la vita stessa di chi la pratica”, ma forse anche con la segreta intenzione di raccontare la sua “versione dei fatti” prima che lo facessero gli altri. Facendo apparire senza speranza qualsiasi tentativo esterno di rendere il senso di un percorso tanto ricco, turbinoso e pieno di passioni ed entusiasmo, Bernardini ripercorre la sua esistenza con leggerezza, a volo d’uccello, seppure in un “racconto affastellato”, in cui “i grandi ideali” e la “generosità intellettuale” si intrecciano alla folla di nomi dei suoi compagni di viaggio (“amici impareggiabili” che gli insegnavano “sempre qualcosa di nuovo”). E con l’immancabile mix di ironia e senso critico, mette in guardia il lettore: “… e questo, sia ben chiaro –come lo è a me stesso– è il passato di un fisico ‘normale’, che molti potranno giudicare mediocre, o comunque non geniale. Come me ce ne sono tanti; eppure qualche diritto a fare storia lo abbiamo, nel senso che, specie vivendo in un mondo che adora i geni come usava con i semidei, i ‘comuni mortali’ hanno talvolta coscienza dei loro limiti e, perciò, bisogno di consolazione. La Fisica progredisce con i bagliori delle grandi idee, ma anche con la moltitudine delle fiammelle di ideuzze, che non danno fama ma ‘rischiarano il panorama’”.

Ma in verità ha lasciato un segno così profondo che è ben difficile classificare la sua intera esistenza come quella di un “uomo normale”...


Luisa Bonolis
Max Planck Institute for the History of Science, Berlin, Germany